Si torna nei luoghi col peso degli anni e con passo diverso. I posti dove sei cresciuto sono l’abito comodo che ti serve per riordinare i tuoi pensieri. Ho preso la mulattiera che dalla sommità del Monte Perdedu scende giù nella Valle del Flumendosa e raggiunge le vecchie capanne dei pastori.
Mi sono immerso in quel che rimane di una meravigliosa foresta ancestrale; alberi giganti, lecci secolari che hanno resistito alla furia del tempo e degli uomini. Le tracce delle andalas, le mulattiere una volta frequentate, lentamente si confondono e la foresta se le riprende. Serve un occhio attento per trovare i segni, sempre conducono ad una capanna, oppure ad una sorgente.
Questi posti sono stati sempre abitati, almeno fino a qualche decennio fa. Secoli di presidio immutabile, di riti e di tradizioni nuragiche, il tutto spazzato via in un decennio di benessere.
Intorno agli anni settanta arrivò il progresso: Mi accorsi che stavo bene solo quando potemmo invitare un ospite a pranzo senza per forza dover rinunciare a mangiare noi per la sua parte, mi disse un vecchio capraio in uno dei suoi lunghi racconti dedicati a noi giovani del paese.
Le capanne, così come i ricoveri del bestiame stanno da sempre negli stessi posti, costruite quasi sicuramente con le stesse pietre che in un’epoca antica appartenevano a qualche nuraghe.
Qualcuno resiste ancora. Chi oggi decidesse di fare l’alba a Nudurei, porta di accesso alla foresta demaniale, vedrebbe due caprai intenti a mungere le capre. Questo avviene da millenni senza mutazione e senza alcuna spiegazione. Avviene negli stessi posti, con le stesse tecniche, con la stessa razza di capre, e con uomini che non differiscono in alcuna caratteristica da tutti quelli che li hanno preceduti.
Curare il bestiame è l’essenza del loro lavoro. La mungitura quotidiana che, almeno in teoria, sarebbe la ricompensa per la fatica del giorno intero, si trasforma invece in un ossequioso e secolare inchino che i pastori rivolgono alla natura, l’unico atto di sottomissione che questa gente sa fare, e forse fa solo perché è gesto inconsapevole.
Toponimi di morti ammazzati, sorgenti di agguati, percorsi obbligati; Dispensa, Argiola ‘e Sardu, Funtana ‘e Cumbidò, Scala ‘e Ferranti. Sono arrivato sul fiume insieme al riflesso del sole sulle piscine, non c’è rumore di campanacci, né fischi sull’altra sponda.
Il Flumendosa, quello imbrigliato fra le dighe di Baumuggeris e del Nuraghe Arrubiu, è posto che ti chiama il sospiro.
Ti scopri incantato dal rumore delle cascate, oppure col naso all’insù a seguire lo stillicidio del ruscello che si congiunge al fiume attraverso la splendida parete di travertino della Stiddiosa, gocciolante in italiano.
Son tornato dopo tanti anni dalle mie frequenti scorribande giovanili, la caccia e la pesca, i bagni estivi, le passeggiate senza motivo. Quel tranquillo vagabondare che procurava serenità è ora svanito, sfumato nei ricordi. In quest’età di mezzo ci torno in silenzio. Col peso di anni vissuti lontano, cercando qualcosa delle proprie radici che mi regali un segno distintivo, diverso da quello dei tanti colleghi di ogni parte d’Europa che incrocio ogni giorno.
La tappa obbligata è il monumento naturale di Su Stampu de Su Turrunu, ci arrivo al tramonto di una soleggiata giornata di fine inverno, passo vicino alle grotte, quelle di Seulo da questa parte del versante, e raggiungo a piedi il vecchio forno di calce, un piccolo nuraghe bianco, anch’esso testimone del duro lavoro di chi ci ha preceduto.
Si racconta che Forestedda, vezzeggiativo usato dai seulesi per nominare quest’angolo di Barbagia, sia stata acquistata dalla popolazione con una colletta pubblica. Proprietà comunale come la maggior parte delle terre intorno Gennargentu. Fortuna e maledizione di chi ci abita, terre di tutti e di nessuno, dove di solito vige una legge per tutti. Talvolta quella di nessuno.
Raggiungo la Scala di Peddassu, ci sta un presidio per turisti e un ecomuseo che lo gestisce.
Questi luoghi saranno popolati per la solita festa del lunedì di Pasqua, da ambo i versanti si riverseranno folle di cittadini per la consueta gita fuori porta. Animeranno in altro modo i paesaggi silenziosi, dal Campidano saliranno festosi per un giorno, di solito rispettosi e educati, sempre allegri. Troveranno ristoro a Sadali, col suo pittoresco centro storico, e a Seulo, coccolati dalla proverbiale ospitalità. Rientreranno con una sensazione d’incompiuto che lo sgorgare delle acque nel monumento restituirà loro per un giorno intero.
Molti torneranno, affezionati ai posti e alle genti, cercando il conforto della natura.
Arrivo e son solo, un’ultima curva coperta di vegetazione, la foresta che canta e cinguetta. Sento il rumore della cascatella, le piogge abbondanti degli ultimi giorni hanno rinvigorito il ruscello.
Il monumento naturale è magico, Il ruscello che delimita il confine fra i paesi di Sadali e Seulo s’infila dentro il buco che ha scavato nel travertino.
Merita una citazione la lotta di campanile fra i due comuni per la proprietà della cascata, tecnicamente sarebbe di entrambi oppure di nessuno. E forse questa seconda ipotesi è la più suggestiva: le cose belle sono patrimonio di chi sa cogliere la bellezza. La Regione lo ha ufficialmente
insignito del titolo di Monumento Naturale, da allora è patrimonio dei sardi tutti, di chi lo sa rispettare.
Alesssandro voleva fotografarlo in notturna, bizzarra richiesta per noi esperti indigeni. Posteggiare la macchina con una luce da speleologo in testa e infilarsi dentro la foresta a notte inoltrata. In perfetta solitudine, con la macchina fotografica e due lunghi stivali da pescatore.
Un bel cielo stellato per copertina, l’incessante tambureggiare dell’acqua per compagnia.
Il risultato è un quadro di Sardegna che fa emozionare.